Il "karma del passato" non esiste

 


In lingua pali (la lingua nella quale è scritto il Canone Buddhista) è kamma, in sanscrito è karma e, così come nel Ṛgveda e nelle Upaniṣad vediche, il suo significato è azione.
La radice kr significa "agire, compiere, eseguire" tanto che, per indicare una professione, si usa il termine kammanta, il dedicarsi all’agricoltura è kasa-kamma. Il Buddha fece questo termine come significato delle azioni intenzionali mentali, verbali o fisiche. Il kamma è un’azione intenzionale che comporta una conseguenza e questa conseguenza è vipāka.
Dunque, quando compiamo un'azione, l'azione è karma mentre la conseguenza o il risultato di tale azione è vipāka. Quindi, quando ci càpita qualcosa, non dovremmo dire "È il mio karma" ma “Sto sperimentando il vipāka del mio karma” (ovvero "sto sperimentando la conseguenza della mia azione").

« È IL MIO KARMA »
Nella cultura occidentale l'uso del termine karma è abusato e stropicciato tanto da avergli dato significati completamente errati.
Troppo spesso si collega al karma sempre e solo una conseguenza negativa come se ogni azione (karma) provochi sempre e solo una conseguenza negativa, inoltre lo stesso concesso di "azione del passato" è una palese contraddizione con il vero significato di karma.

Innanzitutto, nel messaggio del Buddha, ciò che conta è l'intenzione. Lo leggiamo nell' Upâli Sutta (Sutta Nikaya, Majjhima Nikaya 56) dove il Buddha chiede al discepolo Nâthaputta se sia più grave l'azione o l'intenzione, e questi risponde che è l'azione spiegando che lo schiacciare un insetto, ad esempio, sarebbe un'azione grave. Il Buddha gli chiede « Se tu schiacciassi questo insetto non di proposito, senza volizione, sarebbe grave? », Nâthaputta  risponde di no e il Buddha, sorridendo, gli risponde « Dunque concordi con me che è più importante l'intezione ». Infatti, se l'azione fosse stata più grave dell'intenzione, anche un'azione non voluta sarebbe stata grave.
È come nell'esempio del coltello: è grave tagliare la pelle di una persona con un coltello? Si risponderebbe di sì, ma un buddhista risponderebbe « Dipende » perché, se l'uomo fosse un medico, e il coltello un bisturi, l'azione, ovvero il karma, genererebbe un buon vipāka.

NIENTE È PRESTABILITO
Se, in questa vita, noi subissimo le vipāka (conseguenze) del karma (azioni) di eventuali vite precedenti, a che servirebbe compiere, in questa vita, azioni meritevoli? Che senso avrebbe la stessa vita se tutto fosse predeterminato? Potremmo solo vivere attendendo i vipāka dei karma precedenti consapevoli che, qualsiasi nostra azione di oggi, non comporterà nulla di ciò che sia già "scritto".
Ma così non è.

Infatti, il senso di questo insegnamento (buddhista, come induista) è che "il karma produce inevitabilmente vipāka", e basta. Se tutto fosse già predeterminato da azioni precedenti, non avrebbero senso gli insegnamenti delle Quattro Nobili Verità (cattari ariya-saccani) sull'eliminazione della sofferenza, né i metodi per eliminarla, il Nobile Ottuplice Sentiero (atthangika-magga).

Nell'Induismo la tendenza all'azione è rajas, la forza orbitante, Brahmā, l'Esistenza, e la stessa azione (karma) lega gli esseri umani con i lacci dell'azione facendoli cadere nell'ignoranza mentale (avidyā) convincendoli, come accade ad ogni essere umano, che l'azione in sé sia l'artefice di una conseguenza, che ci siano conseguenze causate da karma passati e che, quando c'è una conseguenza predeterminata, ogni karma (azione) sarebbe inutile.

Il Buddha, nel Bhaya Sutta (Anguttara Nikaya 3.62) spiegava che ci sono tre visioni false:

  1. la credenza che tutto ciò che ci accade sia frutto di karma del passato (pubbekatahetu);
  2. la credenza che tutto si debba alla volontà di un evento esterno a noi stessi (issaranimmanahetu), distaccato dalla nostra esistenza;
  3. la credenza che tutto sia privo di causa (ahetu-appaccaya).

Qualsiasi azione produrrà una conseguenza oggi, nella nostra vita, e non perché sia giusto o sbagliato, e non perché interagiamo o non interagiamo, non perché siamo in buona fede o no, non perché c'è una divinità che sceglie cosa ci dovrà capitare, ma perché è così.

Il tutto ricade nel concetto del "Tutto" ma, essendo un concetto profondo e difficile da spiegare in poche parole, lo rimandiamo prossimamente. Spiegandolo però brevemente e in maniera più semplice possibile, pensiamo al "Tutto" come un minestrone dove ogni piccolo pezzo di verdura è un essere umano, un animale, una pianta, una molecola microscopica, una montagna, tutto ciò che c'è e, tutto ciò che viene prodotto, che muta e si trasforma, è l'azione di questo "minestrone" che smuove, crea, distrugge, ricrea perché è la sua natura. I pezzi di verdura non sono pedine, non sono soggetti al minestrone stesso ma fanno parte di Esso e questi esiste grazie ai piccoli pezzi di verdura.

L'INTENZIONE E LA NOSTRA PERCEZIONE
Dunque è l'intenzione a muovere tutto, a creare un certo tipo di vipāka che, come detto, è solo una conseguenza: se siete distratti, vi può sfuggire di mano una tazza, cadere a terra e rompersi. Se la tazza non vi piaceva, l'evento può lasciarvi indifferente, o persino felici mentre, se questa tazza era un regalo di una persona cara, ecco che pensate ad una conseguenza spiacevole, negativa.

Tutto dipende dalla nostra indivisuale percezione e ogni azione (karma) produce un risultato (vipāka) che ci coinvolgerà, che lo vogliamo o meno.

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