Anarchia e Buddhismo: le analogie che non ti aspetti - PARTE 1


Anche se molti lo ignorano, l'Anarchia e il Buddhismo hanno diversi punti in comune. Vediamoli insieme. Oggi vedremo l'assenza di gerarchia.
 
Cosa possono avere in comune due idee/ideologie/filosofie di vita (chiamatele come desiderate visto che la categorizzazione lascia il tempo che trova) apparentemente così diverse?

Come spiegato nel post "Perché sono Anarchico (cos'è l'Anarchia)" e con il video allegato ("E se anche tu fossi anarchico?"), l'Anarchia non è sinonimo di caos, ma di ordine, di assenza di gerarchie e mutua assistenza reciproca.
Il Buddhismo - con riferimento a quello originario Theravada/Sthaviravada di Siddhartha Gautama, e quindi al Canone Pali, la raccolta dei testi Buddhisti - ha come unico scopo l'eliminazione della sofferenza da sé stessi e dagli altri, l'assenza di imposizioni e la liberazione che conduca alla vera felicità (leggi il mio post "Non sono Buddhista. Pratico il Buddhismo").

Questa è la prima parte dove affronterò la tematica sulle analogie tra Buddhismo e Anarchia.
 
Gli elementi di base in comune tra Buddhismo e Anarchia sono:
  1. assenza di gerarchia (e quindi, autogestione)
  2. aiuto reciproco (quindi, mutua assistenza)
  3. assenza di violenze/punizioni (fisiche e non) per azioni più o meno gravi commesse
  4. attuazione pratica di ciò che si vorrebbe ottenere
  5. non attaccamento ai beni materiali (quindi, assenza di ricchezza materiale/economica)
  6. rispetto per la Natura
  7. rispetto per le idee altrui (quindi, assenza di imposizioni di qualunque tipo)
  8. controllo delle nascite con una consapevole vita sessuale
Andiamoli a vedere nel dettaglio.

QUI NON COMANDA NESSUNO
Nell'Anarchia viene esclusa la presenza di uno o più governanti, di un padrone, di un capo, ma si segue la costruzione di una società costituita da persone che si aiutano vicendevolmente per il bene proprio e degli altri. L'assenza di un capo non genera caos (a differenza di ciò che vorrebbero far credere gli stessi governanti) perché, se ci si unisce consapevoli di volere il bene di ogni individuo, non si sentirà la necessità di sovrastare o comandare un'altra persona. Non è necessaria la presenza di chi comanda perché tutti sono sullo stesso piano, pur con capacità diverse, tutti cooperano insieme per il bene comune.
Se un individuo è esperto in un dato lavoro, non farà da "capo" agli altri, ma al massimo sarà di aiuto a chi non conosce quel mestiere, e questo significa consigliare, non comandare.

Nel Buddhismo, a differenza di quanto credano in molti, non esiste una gerarchia di potere.
Il Buddha non creò una sua religione ma semplicemente riferì ai suoi cinque amici (Kondanna, Vappa, Bhaddiya, Mahanama e Assaji), quelli con i quali iniziò la pratica della vita ascetica nei boschi di Uruvela, di aver scoperto i metodi per eliminare la sofferenza.
Praticando nei villaggi, molti chiesero di potersi aggiungere al gruppo e così si iniziò a creare una vera e propria comunità (che per molti anni fu nomade, senza una fissa dimora dove vivere e praticare).
Molti di questi raggiunsero la Consapevolezza ottenuta dal Buddha divenendo poi maestri. Ricordiamo che molti pensano che solo il Buddha raggiunse l'Illuminazione - che non sono dei poteri paranormali, leggi il mio libro "La felicità è nelle tue mani" per i dettagli, vedi fine articolo -, ma non è così. Sariputta ad esempio fu uno dei tanti che raggiunsero lo stesso livello di Consapevolezza del Buddha iniziando a insegnare e praticare con i giovani.

Nel Culagosinga Sutta, sutra contenuto nel canestro del Sutta Pitaka, nel Majjhima Nikaya 31, c'è un racconto molto interessante.
Il Buddha si reca nel villaggio di Nadika, in visita ai monaci Anuruddha, Nandiya, Kimbila che vivevano, solo loro tre, nei pressi nel bosco di Gosingam. Quando il Buddha chiede dettagli sulla pratica e su come procede la convivenza, Anuruddha spiega bene come vivano e come siano organizzati:
  • terminata la meditazione in solitudine, chi tornava per primo, preparava il pranzo per gli altri
  • il primo che ritornava dall'elemosina nel villaggio, preparava per gli altri l'acqua per lavarsi
  • il pranzo era equamente distribuito: quello ricevuto in donazione dagli abitanti del villaggio era diviso in parti uguali
  • la latrina [luogo/locale adibito ai bisogni fisiologici] era da pulire, veniva pulita da ognuno senza che ci fosse un impegno scritto o dei turni giornalieri prestabiliti
  • quando uno di loro aveva raggiunto un nuovo livello di Consapevolezza, si riuniva con gli altri e spiegava i suoi ottenimenti. Chi era in difficoltà, chiedeva sempre aiuto agli altri
  • quando uno di loro era ammalato, gli altri due si occupavano di lui
Solidarietà nell'aiutarsi e sostenersi a vicenda. Nessun comandante, né maestro, né capo, ma solo tre amici che si aiutavano e sostenevano a vicenda per raggiungere l'estirpazione dell'inconsapevolezza. Così come si vivrebbe in un mondo anarchico idealistico.

Questo modo di gestione della comunità era una prassi presso il Buddha e, dagli scritti del Canone Pali Buddhista, non si leggono ordini impartiti per eseguire un determinato compito o punizioni per violazione delle regole stabilite. Quest'ultime si resero necessarie quando la comunità divenne molto grande (superò le migliaia di persone) e quindi risultò difficile gestirla senza dettare linee guida per una pacifica convivenza. Linee guida, non leggi o imposizioni.
In alcuni sutra, come nel Catuma Sutta (Majjhima Nikaya 76), si racconta che ci furono dei monaci che non rispettavano determinate regole e, ad esempio, si intrattenevano con delle donne al di fuori della comunità. Dopo il rimprovero da parte del Buddha (che parlava sempre a tutti i monaci, senza mai redarguire un monaco davanti alla comunità), gli veniva chiesto di esser di aiuto a tutti e di seguire quella vita particolare. Ogni monaco era libero di entrare nella comunità senza alcun requisito (leggi il sutra di Angulimala l'assassino che divenne monaco buddhista) così come era libero di andar via. Se decideva di restare, non doveva violare delle regole base come ad esempio l'avere rapporti sessuali (cosa che avrebbe potuto fare divenendo un buddhista laico e non monaco).

C'era di mezzo la libertà di scelta ma, se si era nel gruppo, era necessario agire per il bene di tutti: un monaco non poteva mangiare tutto il cibo senza dividerlo con chi ne aveva di meno e quindi, agire in quel modo, equivaleva mancare di rispetto verso chi si prodigava per il suo e il bene degli altri monaci.
Nell' Anarchia è la stessa cosa: se si creasse una società anarchica, nessuno dovrebbe esser obbligato a restarci così come non potrebbe chiudersi a chi vorrebbe entrarci. Allo stesso modo nessuno dovrebbe entrare in una società anarchica per distruggerla ma dovrebbe, così come accadeva ai tempi del Buddha, esser aiutato a entrare nella mentalità dell'aiuto reciproco.
Se il soggetto non vuole seguire questo stile di vita, non può restare nella comunità/società e quindi verrebbe espulso. Il dialogo è prioritario all'espulsione immediata, sia società anarchica, sia comunità buddhista.

Errico Gaetano Maria Pasquale Malatesta, anarchico campano, [Santa Maria Capua Vetere il 14 dicembre 1853 – Roma, 22 luglio 1932], nel suo Programma Anarchico del 1919 scriveva:

"Noi vogliamo dunque abolire radicalmente la dominazione e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, noi vogliamo che gli uomini affratellati da una solidarietà cosciente e voluta cooperino tutti volontariamente al benessere di tutti; noi vogliamo che la società sia costituita allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, il massimo possibile sviluppo morale e materiale; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza.".

Queste parole ricordano il Buddhismo. Non c'è alcun dubbio.

 

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